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LA SONATA DI BEETHOVEN

Ultimo Aggiornamento: 17/05/2011 21:59
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17/05/2011 21:53

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Scuote l'anima mia Eros


di Eugenio Scalfari




La Sonata di Beethoven


[....]

Ho scritto all’inizio di queste riflessioni sugli istinti e le passioni di quale sia il nesso tra il desiderio amoroso e la musica romantica, osservando che le note in bemolle e le tonalità in minore sono le tecniche utilizzate dalla musica romantica per esprimere il sentimento melanconico che accompagna e pervade di sé il sentimento amoroso.

Ho citato Chopin come uno degli autori che più si identifica con la tonalità melanconica delle nostre passioni. Provate ad ascoltare i Preludi, abbassate la luce nella stanza e scacciate da voi ogni pensiero perché anche il pensiero potrebbe distrarvi. Bisogna avere la mente vuota e farvi invadare dalla musica. Le parole possono descrivere la melanconia, la poesia può farvela risuonare dentro l’anima con l’incanto e il ritmo dei versi, ma solo la musica vi rapisce e i Preludi compiono questo dolcissimo rapimento.

Le Sonate e gli Studi rivelano invece un altro Chopin, quello che esprime la forma della musica allo stato puro, senza evocare sentimenti né emozioni, come accade anche con il Bach dei Bradenburghesi, con L’arte della fuga e con Il Clavicembalo ben temperato.

La forma di un’arte appartiene al regno degli archetipi, il regno dove il pensiero contempla se stesso e le immagini categoriale. I desideri non hanno inteso in quel regno di pura astrazione. Il miracolo che solo alcuni musicisti sono stati in grado di effettuare è dato dall’avere saputo disegnare sul pentagramma sia la forma della musica sia il desiderio amoroso e la melanconia che spesso l’accompagna e questa è stata la grandezza di Beethoven, di Schubert, Di Chopin e di Brahms.

Ci sono a questo proposito alcune pagine illuminanti del Dottor Faust di Thomas Mann. Ricorderete che il protagonista si chiama Adrian Leverkuhun, un giovane musicista che inventa la musica dodecafonica e vende l’anima al diavolo per poter portare a termine il suo lavoro. Il romanzo è una grandiosa metafora che, appoggiandosi alla profonda cultura musicale dell’autore, delinea in contrappunto il disfacimento morale della Germania nazista e il baratro in cui è caduta quella nazione che aveva dato all’Europa e al mondo grandiose personalità artistiche e filosofiche.

Ma non è per raccontare e leggere insieme questo grandioso affresco storico - letterario che ho citato Doctor Faust, bensì per completare con la prosa di Thomas Mann le riflessioni sulla musica e la melanconia.

Adrian e i suoi giovani amici appassionati di musica frequentano una scuola e un singolare maestro di pianoforte che è anche un efficace commentatore del senso intimo di quell’arte. In uno degli incontri in quella scuola, il maestro di piano, il cui nome è Wendell Kretzschmar, pone ai suoi giovani allievi una domanda: “ Perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte opera 111? Noi, - continua la voce parlante del romanzo, - noi che andammo a sentire la dissertazione sul tema proposto dal maestro, passammo una serata insolitamente proficua anche se la sonata in questione non l’avevamo mai conosciuta. La conoscemmo però quella sera perché Kretzschamar ce la fece sentire molto bene analizzandone con acuta penetrazione il contenuto spirituale e descrivendo le condizioni di vita nelle quali - insieme con due altre sonate ( la 109 e la 110 ) - era stata composta, quando l’udito di Beethoven menomato da una consunzione incurabile, era in progressivo dissolvimento ". Thomas Mann riferisce la dissertazione sulla 111 per sei pagine che sono, secondo me, un capolavoro di interpretazione critica di quest’opera beethoveniana. Ne cito qui qualche passo particolarmente significativo.


“ Il tema del secondo tempo della sonata in do minore, attraverso cento destini, cento mondi di contrasti ritmici, finisce col perdersi in altitudini vertiginose che si potrebbero chiamare trascendenti o astratte; così l’arte di Beethoven aveva superato se stessa; dalle regioni abitabili e tradizionali si era sollevata, davanti agli occhi sbigottiti degli uomini, a un io dolorasamente isolato nell’assoluto, escluso, a causa della sordità, dal ondo sensibile, sovrano solitario di un regno spirituale dal quale erano partiti brividi rimasti oscuri, nei cui terrificanti messaggi i contemporanei avevano saputo raccapezzarsi solo per eccezione.

[…..] Kretzschmar si sedette al piano e suonò tutta la composizione, il primo e e il formidabile secondo tempo, inserendovi continuamente i commenti e accompagnandola qua e là col canto dimostrativo. Si fermò per qualche minuto e cominciò il secondo tempo, “ l’Adagio molto semplice e cantabile”.

Il tema dell’Arietta si annuncia subito e si esprime in sedici battute richiamandosi ad un motivo che si presenta con sole tre note : una croma, una semicroma e una semiminima. La caratteristica di questo tempo è il grande distacco tra il basso e il canto, tra una mano destra e la sinistra, e c’è un momento, una situazione strana in cui sembra che quel povero motivo rimanga abbandonato e solitario sopra un abisso vertiginoso cui segue un trepido sgomento per il fatto che una cosa simile sia potuta accadere. Ma altre cose accadono prima che si arrivi in fondo e quando ci si arriva avviene alcunché d’inaspettato e commovente nella sua dolcezza e bontà. Il ben noto motivo che prende commiato e diventa una voce e un cenno di addio, questo re- sol subisce una lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodioso.

Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis e questo do diesis aggiunto ( o è un re bemolle, dico io ) è l’atto più commuovente, più consolatore, più melanconico e conciliante che si possa dare: E’ come una carezza dolorosamente amorosa sul capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. E’ la benedizione dell’oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre così dolce che gli occhi si riempiono di lacrime.

[….] Kretzschmar concluse con poche parole la conferenza sul quesito: perché Beethoven non abbia aggiunto un terzo tempo all’opera 111. Un terzo tempo? Una nuova ripresa dopo questa addio? Un ritorno dopo questo commiato? Imposssibile. Tutto era fatto. Nel secondo tempo la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno. E dicendo “ la sonata “ non alludo solo alla sonata in do minore ma intendo la sonata in genere come forma estetica. Qui termina la sonata perché ha compiuto la sua missione, tocato la meta oltre la quale non è possibile andare. Quel cenno d’addio del motivo re - sol sol confortato melodicamente dal do diesis era un addio anche in questo senso, nel senso grande come l’intera composizione, il commiato dalla Sonata “.


Ma non si trattava soltanto del commiato dalla Sonata . Dopo la 111 beethoveniana ne furono scritte molte altre, a cominciare dalle tre di Chopin, da Schubert e da Brahms. In realtà si trattava dell’incontro con la morte come lo stesso Thomas Mann accenna in un altro punto di quelle pagine.

Il Maestro compose la 111 nel 1822 e morì cinque anni dopo, ma in questo caso la cronologia ha poca importanza. Ciascuno di noi fa i conti con la morte a suo modo e nel momento in cui sente di doverli fare. Lui li fece scrivendo sulla carta rigata quelle cinque note del do- do diesis - re - sol che passano da un sussurro a un tocco forte e insistito, a un lunghissimo

trillo nella parte alta della tastiera che sembra un singhiozzo senza fine e scatena una corsa dagli alti ai bassi più profondi, quasi a ripercorrere un’intera vita , tempestosa, intensissima, dominata dalla passione e dedicata interamente alla più sublime delle arti: Su e giù su quei tasti, dal pianissimo al maestoso, per tornare a quelle cinque note contrappun-
tate in sordina dalla mano sinistra, il tumulto soffocato del cuore che accompagna la limpidità melodica. Il finale si conclude straordinariamente in “ pianissimo “. L’ultimo battito, poi il silenzio.

Lui i conti con la morte li ha fatti così

[Modificato da ladystark@ 17/05/2011 21:59]
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