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Analisi & Opinioni

Ultimo Aggiornamento: 04/04/2011 22:16
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26/02/2011 16:58

di Gianfranco Belgrano



Tutto sembra partire da Facebook, da Twitter, da YouTube: social network, moderni strumenti di comunicazione, giovani per antonomasia e di fatto. Con percentuali molte alte di popolazione tra i 15 e i 35 anni di età, i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente stanno vivendo ondate di rivolta che partono dal web, dalla comunicazione che corre sulle frequenze dei telefoni piuttosto che su quelle dei media tradizionali. D’altra parte, con televisioni, radio e giornali tradizionalmente controllati dai governi, la rete e la comunicazione in rete offrono una libertà, un’apertura di vedute e una ricchezza di informazioni in tempo reale davvero ineguagliabili. E, in paesi profondamente religiosi, permeati dall’islam e dai tempi della religione, le rivolte arabe stanno piuttosto prendendo vita da altri lidi che non dalle moschee.


Sia in Egitto che in Tunisia, solo in un secondo tempo i Fratelli musulmani e i partiti della tradizione islamica hanno aderito alle proteste apportando il loro contributo ma lungi dall’essere decisivi o davvero propositivi. La rivoluzione è giovane, parla il linguaggio delle nuove generazioni, ed è laica o, meglio, è nata laica. Più che seguire elucubrazioni e analisi politiche, questi giovani hanno fatto la rivoluzione mentre ancora ‘i vecchi’ dicevano che non sarebbe stato possibile, perché l’America e Israele non l’avrebbero consentito, perché mancavano figure carismatiche. Ma intanto la rivoluzione è andata avanti, crescendo giorno dopo giorno, facendo leva su sentimenti e situazioni comuni ai giovani di paesi diversi. Tutto questo sul filo dei cellulari di ultima generazione che consentono di utilizzare i social network scavalcando giornali, televisioni, radio e librerie.


DA FACEBOOK AD AL-JAZIRA


Il tratto comune alle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia e negli altri paesi attraversati dalla protesta è l’uso di Facebook e degli altri social network cui sia affianca subito dopo le prime proteste l’elemento amplificatore dei canali satellitari: al-Jazira, al-Arabiya, al-Hurra. Le immagini arrivano in tutte le case, tutti si accorgono che il re è nudo, molti reagiscono ai primi segnali di repressione del regime. Così quando i manifestanti vengono attaccati per le strade di Sidi Bouzid o nella piazza Tahrir, il giorno dopo la protesta si fa più fitta e aumentano anche le richieste e le rivendicazioni. All’inizio sono in pochi a credere nella caduta del regime, le richieste riguardano maggiori aperture economiche e sociali, libertà di espressione; poi la piazza si fa più forte, il regime scricchiola e concede sempre più spazio. Ovviamente, sia in Tunisia che in Egitto la situazione resta poco chiara, occorrerà aspettare la fine del periodo di transizione e le elezioni. In Egitto, perplessità sono state espresse da Mohammed Hassaneine Haykal, celebre intellettuale egiziano ed ex consigliere del presidente Gamal Abd Nasser che in una sua analisi diffusa da tutti i media egiziani ha evocato lo spettro di una controrivoluzione in atto e tuttora guidata da Hosni Mubarak. Secondo Haykal – che per oltre un decennio fu anche direttore del quotidiano ‘al-Ahram’ – il rais sarebbe ancora in grado di controllare l’esecutivo da Sharm el Sheikh, nella penisola del Sinai. Una tesi condivisa da altri esperti e analisti secondo cui la permanenza stessa di Mubarak in Egitto contribuirebbe a mantenere unito il fronte contrario alla rivoluzione.

Ciononostante, Tunisia e ancor più Egitto hanno avuto un effetto moltiplicatore e dirompente. Costituiscono l’avanguardia del fronte della rivolta e di ciò che è possibile ottenere. I risultati cambieranno di paese in paese, così come varieranno le reazioni dei singoli governi. Quel che sembra evidente è che ci si trova in un momento storico decisivo, importante, potenzialmente denso di opportunità ma anche di rischi.


GLI ATTORI IN CAMPO


Finora gli eserciti sono stati dalla parte dei dimostranti. In Tunisia si sono rifiutati di sparare contro la folla, disubbidendo agli ordini che venivano dall’alto. In Egitto hanno fin da subito preso le parti della gente. Sono eserciti di leva, con sottufficiali lontani dal regime: una situazione ben nota agli alti gradi, corrotti ed emanazione diretta dei governi, che non sono in grado di controllare veramente i movimenti dei soldati.

Diversa la situazione della polizia nelle sue varie connotazioni. Le più invise sono le polizie segrete, addette alla sicurezza interna. Le leggi d’emergenza in vigore dal 1981 e non ancora cancellate consentono alla amn al-dawla egiziana di fermare chiunque, portarlo in carcere, interrogarlo, torturarlo. In nome della sicurezza dello Stato, si commettono reati, si chiedono tangenti proporzionalmente commisurate al grado di cui si gode all’interno del sistema. Un motivo sufficiente per capire come mai il primo obiettivo dei manifestanti del Cairo e di Alessandria siano stati i commissariati di polizia, sistematicamente saccheggiati e distrutti. Simbolo dello Stato e dell’onnipotenza dei regimi, i poliziotti sono stati i primi a scomparire dalle strade delle città, sostituiti dai soldati e da frotte di volontari autoincaricatisi di vigilare sul traffico, sull’ordine pubblico, perfino sulla pulizia e sul decoro urbano.

La baltagheia è il terzo elemento ricorrente nelle rivolte arabe. Persone vicine al regime, o da questo pagate per scendere in piazza in contromanifestazioni e azioni di disturbo. Erano loro a dorso di cammelli e cavalli ad aver fatto irruzione in piazza Tahrir, al Cairo. Ancora loro a saccheggiare e organizzare una vera e propria caccia allo straniero (al giornalista in particolare) , a volte dietro pagamento di una precisa tariffa (intorno alle 500 lire egiziane). Sia in Tunisia che in Egitto la polizia ha probabilmente liberato migliaia di detenuti con l’obiettivo di creare caos. In Libia sembra confermato l’impiego di mercenari dell’Africa sub-sahariana.

Il quarto e dirompente attore è stata la gente. I giovani hanno creato un meccanismo naturale di adesione alle proprie istanze che ha coinvolto larghe fasce della popolazione superando steccati ritenuti quasi insormontabili come quelli delle differenze di religione e di classe sociale. Nelle piazze sono andate famiglie, cristiani e musulmani, ricchi e poveri. Piazza Tahrir è diventata luogo di dibattito, di scambio di idee in un modo nuovo e completamente inedito che ha anche consentito di superare reciproci pregiudizi (i copti rispetto ai Fratelli musulmani e viceversa per esempio).

Infine, i vertici dei regimi, con in mano le leve del potere politico ed economico. Secondo alcuni osservatori, i cablo di Wikileaks hanno avuto un effetto sulla tenuta di Ben Ali, ma soprattutto di Mubarak. Il loro grado di corruzione, le politiche subdole rispetto a Israele (apparentemente nemico, in realtà compagno in affari), la lontananza dalle esigenze del popolo e della nazione, diventata mucca da mungere e nulla più. Davanti ai giovani, in grado di accedere attraverso internet alle informazioni negate dai media statali, è apparsa una verità diversa da quella raccontata e questo ha avuto un effetto travolgente e trasversale.


LINGUA, CULTURA, STORIA


Inevitabile che parlare la stessa lingua, vivere uno stesso sostrato culturale e religioso, avere una storia comune abbia avuto un suo effetto. Le rivolte stanno interessando nazioni con popolazioni molto simili per età media, formazione e cultura, con un altrettanto simile grado di preparazione tecnologica. Il canto del muezzin si ferma davanti agli auricolari e agli schermi ‘touch’ dei telefonini. L’islam, soprattutto all’inizio, c’entra poco e pur non essendo rifiutato ma anzi facendo piena parte della vita sociale, non permea fino in fondo i movimenti di protesta. Le discussioni politiche se non avvengono in rete si spostano nei caffè, nei centri culturali, davanti ai narghilè, in assemblee popolari. Subito dopo le rivolte, il tratto comune è una voglia di organizzazione politica su basi nuove, un fermento senza precedenti i cui esiti restano tuttora imprevedibili.


NEO-ARABISMO


Ponendo i tanti tasselli delle rivolte arabe su uno stesso piano, pur declinandoli localmente sulla base delle inevitabili differenze tra paese a paese, sembra emergere un fatto nuovo che rimanda ai movimenti panarabisti e nazionalisti che precedettero l’islam politico, ma che da quelli si differenzia profondamente ponendosi come fenomeno nuovo e ancora in fieri. Gli egiziani scesi in piazza dapprima hanno inneggiato alla loro ‘egizianità’ (“Alza la testa al cielo, sei egiziano” è stato uno dei cori più frequenti), quindi il tono è cambiato. “Siamo tutti tunisini”, “Siamo tutti del Bahrein”… ma negli ultimi giorni si è passati a “Alziamo la testa, siamo tutti arabi”. Ciò che sta avvenendo nella costa sud del Mediterraneo e in generale nel mondo arabo, avrà influenze sull’Iran, su Israele, sulla Turchia, sull’Europa: conseguenze economiche, e anche politiche.

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24/03/2011 16:59

da puncox.blogspot.com



Immagini e suoni.

Forse nessuna rivoluzione ne ha messi a disposizione tanti quanto le rivolte che stanno infiammando il Nord Africa e il Medio Oriente.
Tanti e a disposizione di chiunque voglia accedervi, in qualsiasi parte del mondo.
È perdendoti, seppur virtualmente, in questa moltitudine che ti rendi conto dell’effetto dirompente di quelle rivolte. E non solo sui regimi locali.

Le folle che riempiono le piazze del mondo arabo abbattono dittatori, riconquistano spazi di democrazia, sperimentano forme nuove di autogoverno.
Contemporaneamente spazzano via la narrazione del mondo arabo imposta dai governi occidentali.


Una storia tossica


Tra la gente scesa in piazza le donne sono truccate, vestono jeans attillati. Si fatica a scorgere un velo, un chador, un burqa.
Gli uomini indossano felpe, bomber, t-shirt.
Ad accompagnare la ribellione non è il ritmo lento delle antiche nenie arabe, ma quello ben più incalzante del rap. French style.
L’urlo che risuona dalla Tunisia al Bahrain è “dégage!”, andatevene! Rivolto ai dittatori e ai loro lacchè.
Niente, neanche per un istante, ti fa credere che quelli che stai osservando e ascoltando siano dei fondamentalisti religiosi.
Quei paesi non sono l’immenso covo di integralisti islamici descritto dai governi e dai media occidentali.
Quella narrazione era una storia tossica. Utile a giustificare guerre, a offrire un nemico ai popoli occidentali, a sviare l’attenzione dalla precarietà, dalla crisi economica, dal fallimento del capitalismo.
Ma le storie tossiche, anche se ben orchestrate, hanno vita breve. E, dopo le fantomatiche armi di distruzione di massa irachene, crolla un altro tassello, quello principale, della narrazione occidentale del mondo arabo.
A farlo crollare non è un’inchiesta, non è Wikileaks.
Sono popoli in rivolta che si mostrano all’Occidente in maniera diametralmente opposta a come erano stati descritti.
La moltitudine che affolla quelle piazze non reclama la shari’a, ma diritti sociali e libertà.
Si oppone a una visione antiquata del mondo, una visione che opprime invece di liberare.
A scendere per le strade sono soprattutto i giovani. In tutti i paesi del mondo arabo più della metà della popolazione ha meno di trent’anni.
Ad accomunarli non sono le credenze religiose. In Egitto, nei giorni cruciali della rivoluzione, cristiani e musulmani hanno pregato insieme per dimostrare di essere un unico popolo.



Il collante è sociale
.


Per tutti “costa tutto troppo”, tutti sono precari, tutti aspirano a una società più libera, diversa.
Da piazza Statuto a piazza Tahrir.
I giovani che protestano nel mondo arabo, scrive il quotidiano britannico “The Guardian”, “hanno un lavoro malpagato che detestano, faticano a ottenere una laurea che non servirà a niente. Sono una generazione ostacolata dalle tradizioni, dalla deferenza e dai governi autoritari”.
La disoccupazione giovanile raggiunge in alcune zone l’80%, in tutto il mondo arabo si attesta mediamente attorno al 25%.
Chi lavora, spesso è sottopagato, impiegato in servizi di assistenza clienti o in call center.
Eppure, spulciando i dati relativi a quei paesi, si nota che il Pil, nell’ultimo decennio, è cresciuto a ritmo “cinese”. Si è prodotta ricchezza, ma questa si è concentrata nelle mani della élite che controlla l’industria e i governi.
Di pari passo con il Pil è cresciuta anche l’inflazione, mentre i salari, per attrarre le commesse occidentali, sono rimasti fermi.
A fronte di una maggiore “ricchezza” prodotta, il popolo si è impoverito ulteriormente e, con l’aumento dei generi alimentari, è diventato difficoltoso anche comperare il pane.
È in questo contesto che le piazze si sono riempite, è per queste ragioni che Mohamed Bouazizi si è dato fuoco innescando la rivolta tunisina.
Quella che affolla le piazze del mondo arabo è una nuova soggettività sociale, frutto dei mutamenti del capitalismo.
Quando, nel 1962, a Torino, migliaia di giovani operai invasero piazza Statuto per protestare contro l’accordo separato siglato tra Fiat e alcuni sindacati, Romano Alquati scrisse: “Noi non ce l'aspettavamo, eppure l'abbiamo organizzata”.
Intendeva dire che loro, quelli di “Quaderni rossi”, erano stati i primi a intuire che un nuovo soggetto, l’operaio massa, frutto delle mutazioni interne al capitalismo, stava affermandosi sulla scena. Quella rivolta diede forma a quelle intuizioni, le confermò.
Fu materia viva da studiare.
Solo quattro anni dopo fu dato alle stampe Operai e capitale di Mario Tronti, in cui quegli spunti, quelle intuizioni, furono formalizzati, divennero teoria.
La rivolta araba non solo non se l’aspettava nessuno, ma nessuno ha contribuito a organizzarla, se non i popoli insorti e le contraddizioni interne al capitale.
In questo caso è il “precario moltitudine” che, dopo l’operaio massa, si appropria della scena sociale.
A scendere in piazza è una nuova soggettività sociale, sorta dei mutamenti che negli ultimi decenni hanno attraversato il capitalismo a livello internazionale.
Una soggettività che rispetto all’operaio massa ha un’arma in più.
Sin dal primo momento le rivendicazioni non sono solo sociali, salariali, come erano a piazza Statuto. Quelle folle reclamano diritti sociali e politici: soldi, pane e libertà.
L’operaio massa ci mise dieci anni per giungere a quelle rivendicazioni, il precario moltitudine non comincia da capo. Riparte dallo stesso punto in cui il lavoro del suo antenato era stato interrotto, sconfitto. Anche se il giovane che occupa piazza Tahrir non ha mai letto “Operai e capitale”, né ha mai sentito parlare di piazza Statuto.
Forse è questo che spaventa i governi occidentali.
Forse è questa la risposta che cerca il filosofo sloveno Slavoj Žižek quando si chiede perché i liberal occidentali, che pubblicamente hanno sempre sostenuto la democrazia, si preoccupano proprio adesso, quando la gente si ribella in nome della libertà e della giustizia, e non in nome della religione.
La paura, probabilmente, è rappresentata dal fatto che, una volta crollata la narrazione tossica del mondo arabo, possa diffondersene un’altra. Una narrazione che parla di soldi, pane e libertà. Risorse che spesso scarseggiano anche per i popoli occidentali.
Una narrazione che per diffondersi può contare su un mezzo del tutto nuovo e orizzontale, la rete.




Rete & rivoluzione


Le rivoluzioni a catena in Nord Africa sono un enorme e metaforico viaggio della speranza”, scrive l’artista italo-libica Adelita Husni-Bey.
A traghettare i rivoltosi, però, questa volta non sono le carrette del mare, ma fibre ottiche, cavi, satelliti.
Con un recente articolo apparso sulla rivista statunitense The New Yorker, Malcom Gladwell ha aperto un’ampia discussione sul connubio tra social media e rivoluzione.
Grazie alla rete, dice Gladwell, si creano esclusivamente legami deboli, utili per sensibilizzare su tematiche specifiche, magari per convincere qualcuno a donare il sangue. Nulla di più.
La rivoluzione, secondo lui, è un’altra storia.
Per farla occorrono compagni fidati, legami che solo calpestando le stesse strade, solo respirando lo stesso odore della rivolta e la stessa puzza della repressione, possono consolidarsi.
Ha ragione!
La sua analisi ha però un limite. Osserva la rete solo dal punto di vista dei legami che può creare. Tralascia le informazioni messe a disposizione senza mediazioni, senza censure.
Immagini e suoni alla portata di tutti.
L’attendibilità delle fonti in rete è stata una delle tematiche più discusse negli ultimi tempi. Il problema sussiste ancora, ma non nel caso delle rivoluzioni di questi giorni.
A far circolare le informazioni, se vivi per esempio in Egitto o in Tunisia, è il tuo vicino di casa, il tuo compagno di banco, quello che l’altro giorno, in piazza, era a protestare al tuo fianco, o al fianco di tuo figlio, di tua moglie, di tuo marito. Per questo non ti poni il problema della fonte. Anzi, la reputi più attendibile.
È la stessa ragione per cui quelle immagini hanno un effetto dirompente anche in occidente, il motivo per cui offuscano la narrazione tossica del mondo arabo.
Grazie alla rete, quel popolo ha l’opportunità di autorappresentarsi, di manifestarsi nelle case occidentali per quello che realmente è, senza mediazioni, senza filtri.
E si manifesta gridando “dégage!”, “andatevene!” a governanti sanguinari e corrotti. Lo fa rivendicando soldi, pane e libertà.
A qualcuno potrebbe venire in mente che, in fin dei conti, questi arabi non sono molto diversi da noi. Si vestono in maniera simile alla nostra, ballano al suono di ritmi a noi familiari, hanno gli stessi nostri problemi…
Sarà questo a preoccupare i governi occidentali?
È per questo che preparano l’invasione della Libia?
Un popolo libero in un paese ricco di materie prime è pericoloso. Per i capitalisti occidentali, of course.

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24/03/2011 23:52

da Spinoza...un blog serissimo
 

Kiss me Libia



Guerra alla Libia. Hanno un po’ rotto con queste celebrazioni.


Tripoli è sotto attacco. Sta’ a sedere nonno, dove cazzo vai!


Lanciati 110 missili, colpiti 4 carri. E vantiamocene pure.


Bombardata la residenza bunker di Gheddafi. Era riconoscibilissima dai panni stesi.


La Lega Araba critica i raid aerei: “L’anno scorso erano più belli”.


Il vescovo di Tripoli: “Le bombe non portano da nessuna parte”. Delusi quelli che si aspettavano un aldilà.


L’Italia mette a disposizione le sue basi americane.


Frattini: “Ni alla guerra”.


L’Italia è pronta a usare contro Gheddafi tutto quello che non è riuscita a vendergli.


“Vogliamo partecipare al dopo Gheddafi”
ha detto Frattini cercando di impietosire un buttafuori.


L’Italia fornirà mezzi, uomini, ominicchi e quaquaraquà.


Napolitano: “Non possiamo sottrarci”. Infatti contiamo zero.


“Siamo nella carta Onu”
. Noi pensavamo di essere nell’organico.


Convocato a Palazzo Chigi un Consiglio dei ministri straordinario. In quanto non si parlerà di giustizia.


Il premier: “Sono addolorato per Gheddafi”. Compragli una Smart.


La Russa: “Aerei pronti in 15 minuti”. Sono i nuovi caccia Findus.


Berlusconi: “I nostri aerei non sparano”. Gheddafi: “Lo so”.


Il premier rassicura: “I missili libici non possono raggiungere l’Italia”. L’esperto ballistico.


“L’Italia vorrebbe un ombrello Nato”
ha detto Frattini consegnando i bollini.


È partita la fregata Euro. Il primo gennaio 2002.


La Russa: “Oggi otto aerei italiani in azione”. Una giornata da ricordare per Alitalia.


Decollano dall’Italia aerei completamente invisibili. Noti anche come aerei a progetto.


Sequestrato rimorchiatore con a bordo 8 italiani, Farnesina in apprensione. Poi arriva la smentita: non c’è nessuna apprensione.


Casini attacca Gheddafi. Hanno un ex in comune.


Per Bersani l’intervento in Libia è perfettamente legale. Per questo il governo era tanto titubante.


“L’Italia è traditrice”
ha detto Gheddafi riferendosi a una qualsiasi guerra dell’ultimo secolo.


Pare che il Rais abbia promesso ai miliziani 350 euro per ogni cadavere. Ecco dove cazzo era finito Mike.


Potrebbero arrivare in Italia uomini addestrati per missioni suicide. Sui ponteggi.


I sostenitori di Gheddafi sventolano fazzoletti verdi. Anche là gli idioti si riconoscono così?


“Cessate il fuoco!”
, ha dichiarato il vicino di Gheddafi in piena notte.


Ieri Medvedev ha criticato Putin. A proposito di insorti.


Lampedusa al collasso: il centro d’accoglienza ospita più di 3.000 persone. Coraggio, fatti ammassare.


Alfano: “I lampedusani non verranno lasciati soli”. Era proprio quello che temevano.


Nascerà a breve la tv degli insorti. Si comincia sempre così.


* * *

autori: locoangel, odobenus, mercà, bojafauss, mestmuttèe, virgilio natola, waxen, cocosauro, venividiwc, demerzelev, fdecollibus, miguel mosè, michele salvezza, amadiro, genoma, giggi, stark, cane di coda, kingfrullo, dom, giddah, darlene alibigie, arsan, misterdonnie.

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04/04/2011 22:16

Prima c’era Saddam, poi Gheddafi. Ora c’è un posto vuoto per il prossimo tiranno pazzo preferito dall’Occidente.

Di Robert Fisk



E così “prenderemo tutte le misure necessarie” per proteggere i civili in Libia, vero? Peccato non averci pensato 40 anni fa, o 41 anni fa. Oppure, va bene, conoscete il resto. E non facciamoci ingannare dal reale significato della risoluzione dell’ONU. Tuttavia, ancora una volta, ci sarà un cambio di regime. E proprio come in Iraq, per usare una delle sole frasi memorabili di quell’epoca, quando l’ultimo dittatore se ne va, chi sa quali tipi di pipistrelli voleranno via dalla scatola?


E dopo la Tunisia, dopo l’ Egitto, deve toccare alla Libia, vero? Gli Arabi del Nord Africa chiedono libertà, democrazia, liberazione dall’oppressione. Si, hanno questo in comune. Ma ciò che hanno anche in comune queste nazioni, è che siamo stati noi, l’Occidente, a nutrire dittature per decenni. I Francesi hanno si sono rannicchiati tra le braccia di Ben Ali, gli Americani hanno accarezzato Mubarak, mentre gli italiani hanno curato Gheddafi finché il nostro meraviglioso leader lo ha fatto risorgere dai morti politici.


Mi chiedo se non sia questo il motivo per cui non abbiamo avuto notizie recenti da Lord Blair di Isfahan. Certamente dovrebbe essere là, ad applaudire con gioia un altro intervento umanitario. Forse si sta riposando tra un atto e l’altro. O forse, come i dragoni nella Faerie Queen di Spenser sta tranquillamente vomitando trattatelli cattolici con tutto l’entusiasmo di un Gheddafi che parla senza sosta. .


E allora spostiamo un pochino il sipario e guardiamo nel buio che sta dietro. Sì, Gheddafi è completamente pazzo, si sta sgretolando, è un eccentrico a livello di un Ahmadinejad iraniano o di un Liebermann di Israele, che una volta dicevano sciocchezze sul modo in cui Mubarak poteva “andare all’inferno” e tuttavia hanno tremato di paura quando Mubarak è stato davvero scagliato in quella direzione. E in tutto questo c’è un elemento razzista.


Il Medio Oriente sembra che produca questi capi festaioli, in contrapposizione all’Europa che negli scorsi 100 anni ha prodotto soltanto Berlusconi, Mussolini, Stalin e il piccoletto che era un caporale nel 10° reggimento della fanteria Bavarese, ma che è impazzito sul serio quando fu eletto nel 1933 ; noi ora, però stiamo di nuovo pulendo il Medio Oriente e possiamo dimenticare il nostro passato coloniale in questo buco di sabbia. E perché no, dato che Gheddafi dice alla gente di Bengasi: “noi verremo, “zenga, zenga” (vicolo per vicolo), casa per casa, stanza per stanza.” Certamente questo è un intervento umanitario che è davvero, davvero, una buona idea. Dopo tutto,non ci saranno “scarponi militari sul terreno”.


Naturalmente, se questo tipo di rivoluzione fosse stata violentemente soppressa in Mauritania, per esempio, non credo che chiederemmo le no-fly zone. E neanche se fosse accaduta in Costa d’Avorio, pensateci, né in nessun altro paese africano che non avesse petrolio, gas o depositi di minerali o che non fosse importante per la protezione che forniamo a Israele, dato che quest’ultimo è il motivo per cui ci preoccupiamo tanto dell’Egitto.


Quindi ecco le poche cose che potrebbero risultare sbagliate, dando un’occhiata furtiva a quei pipistrelli che sono ancora rannicchiati nell’interno umido e scintillante della loro scatola. Supponiamo che Gheddafi resista a Tripoli e che i Britannici, i francesi e gli Americani abbattano la sua flotta aerea, facciano saltare tutti i suoi campi d’aviazione, che assaltino i suoi blindati e le batterie di missili e che egli semplicemente non scompaia. Giovedì ho notato come, appena prima del voto dell’ONU, il Pentagono ha cominciato a informare i giornalisti dei pericoli di tutta la situazione, e che ci sarebbero voluti “giorni” soltanto per istituire la no-fly zone.


E poi ci sono l’inganno e la furfanteria dello stesso Gheddafi. L’abbiamo vista ieri quando il suo Ministro degli esteri ha annunciato un cessate il fuoco e una fine delle “operazioni militari” sapendo benissimo, naturalmente, che una forza della NATO impegnata in un cambio di regime, non le avrebbe accettate, permettendo quindi a Gheddafi di apparire come un leader arabo amante della pace che è vittima dell’aggressione occidentale: Omar Mukhtar vive ancora:


E se, semplicemente, non facciano a tempo, se i carri armati di Gheddafi continuano ad avanzare? Allora “buttiamo dentro” i nostri mercenari ad aiutare i “ribelli”? Apriamo una bottega provvisoria a Bengasi con consiglieri e ONG e le solite pantomime diplomatiche? Notate come, nel momento più critico, non si parla più delle tribù libiche,di quel popolo guerriero audace che abbiamo invocato con tanto entusiasmo un paio di settimane fa. Adesso parliamo della necessità di proteggere “il popolo libico”, senza ricordare più i Senoussi, il gruppo più potente di famiglie tribali di Bengasi,i cui uomini hanno combattuto gran parte delle battaglie. Re Idris, rovesciato da Gheddafi nel 1969, era un Senoussi. La bandiera rossa, nera e verde dei “ribelli”, la vecchia bandiera della Libia pre-rivoluzionaria, è in effetti la bandiera di Idris, una bandiera Senoussi. Supponiamo ora che arrivino a Tripoli (lo scopo di tutta l’operazione, non è vero?), saranno i benvenuti in quella città? Sì, certo, ci sono state proteste nella capitale, ma molti di quegli stessi coraggiosi dimostranti originariamente erano di Bengasi. Che cosa faranno i sostenitori di Gheddafi? “Si dissolveranno”? scopriranno improvvisamente che dopo tutto odiano Gheddafi e quindi aderiranno alla rivoluzione? Oppure continueranno la guerra civile?


E se” ribelli” entreranno a Tripoli e decideranno che Gheddafi e il suo pazzo figlio Saif al-Islam devono dar loro la giusta ricompensa insieme ai loro accoliti? Chiuderemo gli occhi per vendicare le uccisioni, le impiccagioni pubbliche quei trattamenti che i criminali di Gheddafi hanno inflitto da molti lunghi anni? Me lo chiedo. La Libia non è l’Egitto. E, di nuovo, Gheddafi è un pazzo e, vista la sua strana esibizione con il libro Verde sul balcone della sua casa distrutta dalle bombe, si può pensare che probabilmente ogni tanto mastichi anche i tappeti (frase idiomatica che equivale a: recita sopra le righe, fa il mattatore. N.d.T.)

E poi c’è il pericolo che per quanto ci riguarda le cose “vadano male”: le bombe che colpiscono i civili, gli aerei della NATO che potrebbero essere abbattuti o schiantarsi nel territorio di Gheddafi, l’improvviso sospetto tra i “ribelli”/”il popolo libico”/ coloro che dimostrano a favore della democrazia che l’Occidente, dopo tutto, ha altri scopi quando li aiuta. E c’è una noiosa regola universale che si può applicare a tutta questa situazione: nell’istante che si usano le armi contro un altro governo, anche se giustamente, la situazione comincia a regredire. Dopo tutto, gli stessi “ribelli” che giovedì mattina dimostravano la loro furia per l’indifferenza della Francia,la sera dello stesso a Bengasi sventolavano le bandiere francesi. Possa l’America vivere a lungo. Fino a quando…..


Naturalmente sono i vecchi argomenti. Per quanto il nostro comportamento possa essere stato cattivo in passato, che cosa dovremmo fare ora? Amavano Ghedafi quando è andato al potere nel 1969 e poi, dopo che ha dimostrato di essere una testa di gallina, lo abbiamo odiato e poi lo abbiamo amato di nuovo- mi riferisco a Lord Blair che gli aveva imposto le mani sul capo – e ora lo odiamo di nuovo. E’ successo lo stesso nel caso degli Israeliani e degli Americani per quanto riguarda Arafat, ma in senso contrario. Prima era un super terrorista che bramava di distruggere Israele, poi è diventato un super statista che stingeva la mano di Yitzhak Rabin, poi è stato di nuovo un super terrorista quando capì che era stato ingannato riguardo al futuro della “Palestina”.


Una cosa che possiamo fare è individuare i futuri Gheddafi e i futuri Saddam che stiamo allevando proprio adesso; il futuro pazzo, i sadici delle camere di tortura che stanno allevando i giovani pipistrelli con il nostro aiuto economico. In Uzbekistan, per esempio. E in Turkmenistan: E in Tajikistan e in Chechenya e in altri paesi che finiscono in stan. Invece no. Questi sono gli uomini con cui dobbiamo trattare, uomini che ci venderanno petrolio, che compreranno le nostre armi e che terranno a bada i terroristi musulmani.


E’ tutto tediosamente conosciuto E adesso ci risiamo, dando pugni sulla scrivania in unità spirituale. Non abbiamo molta scelta, vero, a meno di non volere vedere un’altra Srebenica. Ma teniamo duro. Quel fatto non è accaduto molto tempo dopo aver imposto la nostra fly-zone sulla Bosnia?


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Robert Fisk  è un giornalista britannico

È corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano britannico The Independent. Da circa 25 anni risiede a Beirut

Lavorò come corrispondente in Irlanda, Ulster e Portogallo. Dal 1976 lavorò nel Medio Oriente, prima come corrispondente del The Times e successivamente come corrispondente per il quotidiano The Indipendent.

I suoi maggiori lavori riguardarono la guerra civile libanese l'invasione sovietica dell'Afghanistan la guerra Iraq-Iran l'invasione israeliana del Libano la guerra civile in Algeria e le guerre balcaniche. Seguì il conflitto israelo - palestinese, fu sul fronte della Prima Guerra del Golfo Persico e la Seconda Guerra del Golfo Persico

Considerato come uno dei più grandi esperti in materia di conflitti in Medio Oriente,ha contribuito alla diffusione internazionale delle notizie riguardanti i massacri della guerra civile algerina, degli omicidi di
Saddam Hussein, delle rappresaglie israeliane durante l'Intifada, seguì tutte le vicende degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq.
                                                                  

Il New York Times  lo descrive come "probabilmente il più famoso corrispondente estero britannico".

[Modificato da ladystark@ 04/04/2011 22:16]
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